Poste italiane, privatizzazione fasulla, dentro c’è C.D.P. L’ultima cassaforte rimasta ancora piena in Italia
«Non c’è niente nella natura di questo business, come non c’è nel trasporto di passeggeri o nel commercio in generale, che dovrebbe dare ragioni per renderlo un monopolio, sia nelle mani dello Stato sia in quelle d’individui.»
Giocare con le parole è un esercizio spesso adottato da chi intende gettare fumo negli occhi dei propri interlocutori. In questi giorni, sui media mainstream rimbalza freneticamente un titolo che porta con sé una certa carica «emozionale»: le Poste italiane saranno privatizzate. Al di là dello scopo sensazionalistico, quest’operazione è stata calcolata solo per portare altri liquidi nelle casse dello Stato, che si sta rendendo conto di come le sue politiche fiscali oppressive inizino a dare risultati negativi. Le stime vengono gonfiate per fare bella figura, ma la realtà poi ne chiede lo scotto. Sostanzialmente, l’operazione messa in campo dal governo Letta prevede che nei prossimi due anni il 40% delle azioni di Poste italiane sia ceduto a soggetti privati. Sembrerebbe una bella notizia, in superficie, per i sostenitori del mercato. Ma non è cosí. Innanzitutto, ricadiamo ciclicamente in quella fallacia secondo cui l’apertura parziale al mercato darà benefíci di lungo termine.
Di breve termine, sicuro. Di lungo? Non scherziamo. Agendo in questo modo, cioè creando un ibrido tra mercato e monopolio, si finisce solamente coll’aggravare una situazione già decadente. La gestione d’affari economici in tale ambiente viene deturpata allo stesso modo dall’impossibilità d’operare un calcolo economico corretto. Già nel 1920, nel suo Economic Calculation in the Socialist Commonwealth, Ludwig von Mises avvertí che la pianificazione centrale dell’economia è un miraggio politico dettato dalla presunta onniscienza di coloro che si fregiano dell’autorità popolare per manomettere i segnali di mercato. Se l’apertura al mercato è parziale, si finisce lo stesso per allocare malamente i fattori di produzione all’interno d’un ambiente economico i cui prezzi non informano correttamente coloro che vi fanno affidamento. Ciò porta al lento ma inesorabile sconquasso del tessuto economico, sfilacciando di conseguenza i rapporti sociali e richiedendo ai pianificatori centrali maggiori interventi per tenere insieme le fila dei loro piani ben congegnati. L’economia ibrida finisce per diventare totalmente socialista e direzionata dittatorialmente da un manipolo d’individui. L’ultimo stadio di questo processo è il suicidio: l’URSS nel 1989.
> Finte privatizzazioni e quei pericoli sul credito
La vendita parziale d’azioni delle Poste servirà quindi solo a far confluire ulteriori fondi nel piú grande apparato sperperatore di risorse, i quali molto probabilmente saranno allocati malamente in progetti improduttivi — tipo questo. Che cosa manca alla pianificazione centrale? In The Pretence of Knowledge, F. A. Hayek c’illumina: i desiderî mutevoli degl’individui, guidati dalla soggettività, rendono impossibile la previsione d’azioni propositive da parte d’una ristretta cerchia d’individui. È arrogante e forviante pretendere di poter ingabbiare gl’individui in freddi schemi statistici e modelli matematici. Pertanto, una vera privatizzazione dovrebbe prevedere la piena cessione d’un bene a coloro che sono disposti ad acquisirne la proprietà (attraverso le azioni) — probabilmente i relativi dipendenti. Lo Stato dovrebbe uscire completamente da questo business.
> Spesa pubblica: perché non si riesce a diminuire?
Proseguendo la lettura della proposta, apprendiamo che la parte ceduta dallo Stato riguarderà i servizi postali e non quelli bancari (Bancoposta) o assicurativi (Postevita). Questo è un punto davvero interessante. Nel corso degli anni, Poste italiane ha invaso progressivamente settori di mercato sempre piú ampi. Come sostiene Massimiliano Trovato nel suo paper «Poste Italiane: la nuova IRI»,
Un fantasma s’aggira per l’Europa: è il fantasma dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale voluto dal Duce e presieduto da Alberto Beneduce. Se nel 1957 Sergio Ricossa poteva scrivere che «il vero italiano vede con occhiali Salmoiraghi (IRI), si serve d’elettricità della Finelettrica (IRI), ascolta […] programmi della RAI con dischi Cetra e pubblicità SIPRA […], telefona coll’IRI […], affida i risparmi alle banche dell’IRI, legge giornali sostenuti dalla pubblicità IRI», si potrebbe ben sostenere che il vero italiano del 2009 spedisce con Poste, risparmia con Bancoposta e paga con Postepay, s’assicura con Poste Vita, usa l’elettricità di Poste Energia e telefona con Poste Mobile, fa spese con Poste Shop e va a Lourdes con Mistral Air.
Come mai prima d’ora, le Poste vengono oggi additate come un modello d’efficienza e innovazione: è, del resto, sotto gli occhi di tutti l’evoluzione degli utili, in crescita costante dai 22 milioni d’euro del 2002 agli 883 del 2008; niente male davvero, per un’azienda che per cinquant’anni aveva collezionato senza soluzione di continuità bilanci in rosso, richiedendo all’azionista pubblico sforzi immani di ripianamento.
È questo il prezzo della pianificazione centrale: invasione d’altri settori del mercato per tenere in piedi l’illusione di solvibilità d’investimenti improduttivi reputati fondamentali — per fini clientelari — da parte della classe dirigente. Ma ciò non spiega completamente perché lo Stato abbia voluto mantenere il controllo sul lato bancario delle operazioni. In realtà, se ci pensate, è parecchio intuitivo. Due parole: denaro facile. Se avete fatto caso alle pubblicità in tivvú, ne ritorna sempre piú spesso una in particolare, che consiglia agl’italiani d’investire i propri risparmi (quelli rimasti) in buoni fruttiferi postali. Questi ultimi sono la fonte di finanziamento della Cassa Depositi e Prestiti, che è alla ricerca di fondi per mantenere in piedi settori zombi e drena-risorse. Non solo: non scordiamoci dei libretti di risparmio postale, dove sono stipati parecchi fondi degl’italiani. Mentre negli ultimi anni i conti correnti sono stati abbandonati dagl’italiani, i libretti postali hanno conosciuto un vero e proprio boom. Che cosa significa? Piú soldi da poter gestire da parte dei pianificatori centrali. Come? Due parole: riserva frazionaria.
La fonte di finanziamento rappresentata da questo gigante del credito è qualcosa che lo Stato non si lascerà scappare, poiché l’Italia, una volta entrata nell’euro, ha dovuto dire addio alla capacità della Banca d’Italia di creare denaro dal nulla. Anche se il mondo mainstream afferma che la CDP non fa debito quando agisce per conto dello Stato, ciò non è corretto. Debito on-budget, sicuramente no. Off-budget? Potete scommetterci. Il problema con quest’assetto è che, come detto prima, l’allocazione delle risorse da parte dei pianificatori centrali è soggetta a una scarsa visione generale dell’economia, incappando di conseguenza in sperperi e investimenti improduttivi. La fiducia nello Stato italiano sorregge quest’illusione: «I vostri soldi sono lí». Non è cosí. Vantate un credito, ma i vostri soldi sono spariti. Siete la garanzia ultima dietro la credibilità e la capacità di finanziarsi dello Stato. Volontariamente? Non credo; soprattutto dacché i libretti postali sono diventati obbligatori per determinate transazioni monetarie e per riscuotere le pensioni.
> Favorire la crescita (senz’aiuti pubblici)
La confusione generata dalla manipolazione delle parole è disarmante. Si pensa che, se lo Stato è gestito come un’impresa privata, esso potrà prosperare. Questo mito è sfatato da Mises anche in Bureaucracy, dove egli avverte che un tale assetto dell’economia è destinato al fallimento, perché lo Stato è incapace d’operare un calcolo economico corretto, e non è incentivato dal sistema profitti–perdite. L’unica riforma da attuare è una privatizzazione totale, dove lo Stato esce di scena dal business che prima gestiva, ritirando cosí monopoli, privilegi e sussidi. Si potrebbe, infine, obiettare che le risorse ricavate da quest’operazione ripagheranno parte del debito accumulato finora dallo Stato italiano. Prego? Cinque «miseri» miliardi d’euro? Lo Stato italiano ha un patrimonio immobiliare che vale 300 miliardi d’euro — e che ancora non è stato dismesso.
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