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Harold Bloom : William Shakespeare «inventore dell’uomo»

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Harold Bloom è uno dei massimi critici letterari americani, celebre tra le altre cose per opere fondamentali come Il canone occidentale e Il genio. In questa intervista, SI affronta il pensiero di uno degli autori prediletti, William Shakespeare, posto anche al centro del citato Canone.  

Professor Bloom, in un suo famoso libro lei definisce William Shakespeare «inventore dell’uomo». Potrebbe spiegare in breve questo concetto?

Questo è un argomento che va trattato con molta cautela, perché il suo fraintendimento ha dato luogo a un mucchio di sciocchezze, sia da parte di altri critici che da parte dei miei detrattori. Uso il termine «invenzione» nel medesimo modo nel quale lo utilizzano lo stesso Shakespeare, Samuel Johnson e la tradizione retorica: intendo cioè la parola «invenzione» come processo euristico, attinente alla scoperta del linguaggio. Non intendo certo dire che Shakespeare sia stato «inventore» al pari di Thomas Alva Edison, che ha creato la lampadina. Cito Johnson quando afferma che «l’essenza della poesia è invenzione»: questa è l’accezione del termine in retorica, e io lo uso in questo modo, intendendo con «invenzione» la scoperta dell’uomo tramite l’esercizio del linguaggio e del pensiero. Tutto ciò di cui parla Shakespeare è sempre esistito, infatti, ma se non ce l’avesse mostrato sotto una certa luce, forse non l’avremmo mai visto o riconosciuto.

C’è però un’altra questione fondamentale, relativa ai caratteri. Prima di Shakespeare essi, nell’ambito della letteratura creativa, sono stati rappresentati in modi diversissimi, dalla narrativa al teatro alla poesia all’epica. Ma il grande drammaturgo inglese, insieme a Montaigne (che è quasi suo contemporaneo e verso il quale ha qualche debito) e a Cervantes forma un trio che, in maniera differente, ha saputo dare nuova enfasi alla rappresentazione del carattere: Montaigne ne crea uno, gigantesco: se stesso; Cervantes due, Sancho Panza e Don Chisciotte, il cavaliere dalla triste continenza. Tuttavia in questo senso Shakespeare è unico, perché ci fornisce cento diversi caratteri nei personaggi principali delle sue trentotto opere teatrali, e mille altri nei personaggi minori: ognuno parla, si comporta e pensa in modo diverso. Questo è il suo miracolo.

Tra le molte pièce shakespeariane, alcune parlano di Venezia, e nella prefazione a una di esse, Il mercante di Venezia, lei fa tra l’altro un riferimento divertente alla natura «birichina» della città lagunare e dei suoi abitanti. Come va letto questo testo?

Credo che il malinteso più frequente in tutte le interpretazioni moderne del Mercante sia ignorare che si tratta di una commedia, non di una tragicommedia, di un dramma o tantomeno di una tragedia. Agli occhi di Shakespeare e del suo pubblico Shylock risulta essere un villain comico. Naturalmente non è così che lo si rappresenta oggi, per una serie di complessi motivi sociologici, politici e storici. Ma vorrei ricordare che nella compagnia del Bardo questo ruolo forse veniva incarnato dal primo attore, Richard Burbage, ma molto più probabilmente dal clown Will Kempe, vestito con una parrucca rossa e una gabardina. Si tratta insomma di una caricatura, molto affine al suo modello, Barabba, l’ebreo di Malta protagonista dell’omonima straordinaria pièce di Christopher Marlowe, che cronologicamente viene prima. Certo Shakespeare, essendo Shakespeare, non costruisce una semplice figura di «cattivo comico», ma crea invece un personaggio dotato di tantissime sfumature. In ogni caso, la tradizione moderna di interpretare Shylock come carattere tragico mi sembra del tutto errata.

Qual è secondo lei il rapporto che lega Shakespeare a Marlowe? 

È una relazione molto complessa. Qualche anno fa, ai tempi diShakespeare:The Invention of the Human, ho scritto che Shakespeare «ha semplicemente ingoiato Marlowe allo stesso modo in cui una balena inghiotte un pesciolino. Ma che quest’ultimo gli ha provocato un mal di pancia duraturo…». Marlowe è sempre presente in Shakespeare, ma è una presenza che dev’essere esorcizzata. Probabilmente l’esperienza determinante della vita artistica di Shakespeare è accaduta quando lui era ancora giovanissimo e non faceva il drammaturgo ma l’attore. Quando cioè ha assistito alla rappresentazione della prima parte di Tamerlano il grande. In quell’occasione ha potuto vedere sul palcoscenico Edward Alleyn – il grande interprete tragico di Marlowe – esercitare ciò che quest’ultimo definisce «la patetica della persuasione», vale a dire la potenza dell’eloquio che permette a Tamerlano di sedurre il mondo. E Shakespeare osservava intorno a lui 2500, 3000 persone completamente stregate e ipnotizzate dall’incantesimo della scrittura di Marlowe, il suo pentametro tremendo, i suoi periodi vaganti, la straordinaria retorica teatrale. Quest’esperienza ha lasciato in lui una lezione duratura sulla forza che il linguaggio drammaturgico esercita sul pubblico. Penso che di tutte le influenze che Shakespeare ha subito questa sia la più importante, anche perché la più pragmatica.

Credo che Shakespeare abbia sempre sentito un debito nei confronti di Marlowe, da cui è nata l’esigenza di esorcizzarlo, riuscendovi però solo in parte: l’ombra del suo predecessore è sempre presente.

Anche alla fine della Tempesta, nessuno si rende conto di essere di fronte a una versione shakespeariana dell’ultima opera di Marlowe, ilDoctor Faustus: Prospero è semplicemente il nome italiano di Faustus, entrambi significano «il favorito». Ma al posto di Mefistofele come aiutante Shakespeare affianca a Prospero un vivace angioletto come Ariel.

Vuole dirci qualcosa su un’altra opera «veneziana», Otello?

Riguardo Otello ho una convinzione profonda, che spesso mi ha fatto entrare in polemica con i miei colleghi. Sono convinto che tutta la tragedia sarebbe percepita in modo assai diverso partendo dal fatto che il matrimonio tra Otello e Desdemona non si sia mai consumato. Se si legge il testo con attenzione ci si accorge che – nel brevissimo arco di tempo nel quale si svolge l’azione, un giorno, una notte e parte del giorno dopo – Shakespeare non ha lasciato alla coppia il tempo di consumare le nozze (e non sembra che Otello lo desideri particolarmente). Questo cambiamento di prospettiva è avvalorato dalla scena conclusiva, la vera climax drammatica della pièce, quando Desdemona raccomanda ad Emilia di fare il letto con le lenzuola matrimoniali, non ancora macchiate del suo sangue virginale, nella speranza di unirsi finalmente con il suo signore. Lui stesso, prima di ucciderla, le dice: «Non farò scorrere il suo sangue». Non macchierò quelle lenzuola. Poi la strangola a morte.

Bisogna sempre tenere a mente che Shakespeare è un drammaturgo analitico e molto subdolo. Man mano che procede nella sua carriera, quello che intende dire al pubblico supera di gran lunga quanto invece è contenuto nei versi. Amleto è un esempio di questa complessità. Shakespeare non ci dice mai da quanto tempo dura il rapporto amoroso tra Claudio e Gertrude: questo pensiero è l’unico davvero insopportabile per Amleto, che proprio per questo non lo esplicita mai a parole. Se infatti quella relazione è antica, di molto precedente alla morte di Amleto padre per mano del fratello, si apre la possibilità che Amleto sia figlio di Claudio, o quantomeno nasce spontaneo il dubbio. Ecco perché, quando ha già levata la spada alle spalle dello zio, si blocca dicendo che se lo uccidesse in quel momento, mentre prega, gli farebbe un favore mandandolo in paradiso. Ma è una sciocchezza, nessuna teologia afferma un concetto del genere, e Amleto stesso non ci crede. Ciò che lo ferma è la profonda paura che si tratti del proprio padre carnale.

Del resto questa è una questione che riaffiora in Shakespeare. Nel Giulio Cesare molti personaggi accennano al fatto che Bruto sia figlio naturale di Cesare. I romani danno per scontato che lo sia. E sia Bruto che Cesare sembrano saperlo. Questo rende l’omicidio, l’accoltellamento, l’ultima ferita inferta ancora più terribili, perché non si tratta «solo» di regicidio, ma di un atto di parricidio. Ecco perché Cesare rivolge a Bruto quelle parole in latino: «Et tu, Brute?» Il punto è che Shakespeare non ce le dice queste cose. Vuole che ci arriviamo da soli. Sapere chi è il proprio padre, nella vita come in Shakespeare, o in Shakespeare come nella vita, è davvero una faccenda complessa. Il vecchio detto: «Raro nella vita è l’uomo che conosce il proprio padre» Shakespeare lo tiene sempre a mente, ed è un tema che ricorre in altre opere, come ad esempio Racconto d’inverno.

Per concludere, un’ultima domanda: che rapporto intreccia il teatro di Shakespeare con gli elementi musicali presenti nella sua epoca?

Oltre alle grandi opere teatrali, Shakespeare compone anche sonetti e alcuni altri eccellenti poemi narrativi. Ma è un dato di fatto che le pièce – siano tragicommedie, tragedie o commedie – sono sempre punteggiate da canzoni. Le più riuscite direi che sono quelle di Autolico in Racconto d’Inverno, e i brani di Ariel nella Tempesta, che è assai ricca di interventi musicali, gran parte dei quali suonati da un liutista. Non sappiamo con certezza se, oltre alle canzoni, la musica accompagnasse o meno il grosso del teatro shakespeariano. Ma sicuramente c’è un legame molto stretto con quei brani. Basti pensare al canto di Ofelia, alla «Canzone del salice» di Desdemona, alle melodie folli eseguite dalle streghe nel Macbeth, al magnifico buffone di Re Lear...

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