HEMINGWAY AMAVA EMOZIONARSI ERA PARTE DEL SUO PROCESSO CREATIVO PER QUESTO AVEVA BISOGNO SEMPRE DEL BELLO INTORNO A SE. L’ITALIA E’ STATA META DELLE SUE VISITE E CORTINA D’AMPEZZO UNA DELLE PREFERITE.
Ernest Hemingway considerato da molti lo scrittore simbolo del Novecento, ha scelto di raccontare senza timore ciò che aveva vissuto in prima persona e che quindi conosceva molto bene, rompendo, per primo e più di tutti, con una certa tradizione stilistica ottocentesca e influenzando le successive generazioni di narratori.
Hemingway e Cortina
Natale 1948, Cortina. Mary, l’ ultima moglie di Hemingway, nella prima metà di dicembre aveva affittato la Villa Aprile, delizioso chalet, ai bordi della città.
In quella casa Hemingway aveva invitato a passare qualche settimana Fernanda Pivano, Nanda. Hemingway si alzava prestissimo e girava in costume molto succinto lasciando la porta della sua camera spalancata e sul comodino i due fiaschi di Valpolicella che gli tenevano compagnia durante la notte. Portava già una visiera con la quale si difendeva dalle luci fortissime che usava per leggere la notte e ogni tanto si fermava alla minuscola macchina da scrivere portatile e scriveva brevi messaggi girando il nastro sul rosso. I messaggi scritti in rosso erano “privati”, rivolti agli ospiti o a Mary, le frasi scritte in blu potevano essere inserite nel libro in corso.
Quando la porta della camera di Hemingway era aperta voleva dire che “lui” stava riposando dal lavoro: il lavoro iniziava alle cinque del mattino e durava fino alle undici, quando cominciava la processione dei visitatori e l’incantesimo finiva. La mattina, prima che arrivassero i visitatori, c’era la cerimonia della posta, che arrivava sempre a mucchi. Quella italiana la dava a Nanda e si faceva spiegare chi erano gli autori delle lettere, poi rispondevano: un privilegio incredibile per la giovane Nanda, come quello di farla stare seduta al suo tavolo mentre lavorava.
Gli piaceva molto ricevere e scrivere lettere. Nei giorni di Natale ne era arrivata una datata “Varese 22 dicembre 1948”, sei pagine scritte a mano, di Elio Vittorini, in cui Vittorini gli augurava Buon Natale, gli chiedeva se poteva andarlo a trovare il 1° gennaio “perché in Italia pensiamo che quello che facciamo il primo dell’anno lo facciamo tutto l’anno, così ognuno fa, quel giorno, quello che si augura di riuscire a fare tutto l’anno”. Vittorini non era venuto al primo dell’anno.

Hemingway aveva voluto andare a visitare Fossalta per rivedere i luoghi dove era stato ferito. Naturalmente quando era arrivato a Fossalta era rimasto deluso perché tutto era cambiato: il villaggio era stato ricostruito, le rive del fiume erano coperte di erba, il fiume era pieno di giunchi. Cercava il punto dove era stato ferito. Quando ha creduto di averlo trovato aveva scavato una minuscola fossa con un temperino e vi aveva seppellito un biglietto da mille lire per restituire la pensione di guerra che aveva ricevuto fino allora.
Gli piaceva girare in macchina fra le montagne, sulla sua Buick celeste con qualche bottiglia di Gordon Gin nel bagagliaio e Mary sepolta sotto le coperte sul sedile posteriore della macchina aperta in un freddo eroico. Dal Passo delle Tre Cime di Lavaredo poi per Dobbiaco e Brunico; a tavola si parlava di Stendhal, di Maupassant e di Flaubert. Poi di nuovo in viaggio, verso la Val Badia e Corvara, per tornare a Cortina. Il suo aspetto era splendido, il sorriso pronto, ricco di tracce di quella che era stata in gioventù una delle sue più forti armi di seduzione, i capelli folti erano appena un tantino brizzolati, la voce, sempre sommessa, pareva instancabilmente sul punto di confidare segreti inaccessibili “agli altri”, spesso in quella “lingua franca”, mischione di americano, francese, spagnolo e tedesco.

Del futuro disastro era impossibile immaginare qualche segno. Eppure nel pieno com’era del successo e della popolarità, mentre i titoli dei giornali proclamavano la sua fama di scrittore più importante del mondo, calavano ogni tanto sul suo viso quelle ombre, quelle nuvole di disperazione che gli piegavano le labbra e gli facevano sbarrare gli occhi.
Il giorno di Natale era venuto a tavola sobrio, come era sempre nelle ore di lavoro prima che i visitatori lo costringessero ai brindisi di Martini.

Parlava con quel suo sarcasmo spietato, più tagliente di qualsiasi lama, col sorriso un po’ piegato da una parte come usava nell’immagine macho della sua giovinezza, e riusciva a non deludere nessuno della folla che come sempre si radunava intorno a lui dovunque andasse, un po’ per la sua celebrità da stella del cinema un po’ per la sua pazienza verso chiunque cercasse di avvicinarlo.
Non c’era albero di Natale, quel giorno, non c’erano in giro anglosassoni libri celebrativi, non c’era il gioco dell’oca pomeridiano.
Il Natale era lui, Hemingway, come era lui a diventare il centro della realtà in qualunque luogo e in qualunque circostanza si trovasse.
Quel Natale 1948 è stato il Natale di Hemingway e basta. E di Nanda. E Nanda gli aveva insegnato una canzone, che era solito canticchiare nei momenti di serenità: “Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri, neri come el carbon”.
L’aveva cantata anche quella sera, era il 1 Luglio 1961. Il giorno dopo finì così l’esistenza di un grande scrittore
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