Il primo personal computer è stato creato dalla Olivetti, equipaggiato fin da principio con una CPU a 16bit: l’M20, una macchina che racconta di un periodo molto significativo per la successiva evoluzione del settore.
A proposito di Apple, vale la pena ricordare, che la Olivetti aprì una sede a Cupertino nel 1972, quando Jobs era ancora un fricchettone impiegato in Atari e Wozniak lavorava in HP. Ricordiamo questi dettagli per dare l’idea dell’enorme vantaggio che l’azienda di Ivrea, oggi ridotta com’è, aveva sulle competitors d’oltre oceano.
Nel 1981, a sei mesi dal lancio del primo PC-IBM, Olivetti annuncia M20, equipaggiato con CPU Z8001, a 16 bit “reali”, ossia nell’ALU e nel bus dati. Come tradizione per la casa di Ivrea, M20 è un computer molto curato dal punto di vista del design – realizzato da Sottsass, nella foto, – e ottimamente fornito sul fronte tecnico. Sotto molti aspetti dunque superiore alla controparte IBM, il 5150, motorizzato Intel 8088.
Iniziamo dalla CPU: prodotto dalla ZiLOG e parente alla lontana dello Z80, Z8001 rappresenta un enorme passo avanti come potenza computazionale rispetto al predecessore – che equipaggiava tra gli altri molti home della Sinclair – ma una rottura dal punto di vista della retro-compatibilità.
L’accoppiata Z80-CP/M era infatti estremamente popolare all’epoca e molto software già circolava sulla piattaforma, che di fatto rappresentava la principale alternativa all’accoppiata MS-DOS/x86. Olivetti decise invece di equipaggiare M20 con un OS proprietario, PCOS, il che si rivelò una scelta deficitaria anche a causa dei potenti mezzi con cui già allora IBM lavorava – a braccetto con Microsoft – per la costruzione di quello che sarebbe divenuto poi lo standard di mercato (e la causa della sua uscita dal mercato PC qualche lustro dopo).
Dimostra la veridicità di questa considerazione il successivo equipaggiamento del computer con una scheda x86, che consentiva l’esecuzione di applicazioni MS-DOS, e il phasing out del sistema a vantaggio del più celebre M24.
Interessante la documentazione su M20 raccolta nel sito Autopsie di retrocomputer leggendo la quale apprendiamo che la defunta rivista Micro&Personal Computer nel 1984, a più di due anni dal debutto di M20, attribuiva il suo insuccesso all’essere M20 una macchina non standard.
Ma dov’è scritto che per un colosso com’era allora Olivetti, adeguarsi agli standard altrui fosse l’unica via? A buon diritto l’azienda eporediense tentava la via della piattaforma chiusa: una via che per molti anni avrebbe tenuto banco nel settore home e personal computer, col succedersi di numerose e vendutissime architetture alternative.
Da una migliore strategia di convivenza col parco software esistente e dalla “coltivazione” di un ecosistema software, Olivetti avrebbe infatti potuto guadagnare un suo mercato, più resistente alla concorrenza, ricco e autonomo di quanto non si sarebbe rivelato quello degli IBM-compatibili – malgrado il successo di M24.
Aprire insomma la strada poi seguita da Apple la quale, osservando M20, scopriamo non essere stata la prima a dimenticare il tasto CANC sulla tastiera.
Storie di grandi uomini italiani:
“Quando, nel 1954, Adriano Olivetti, genio assoluto della gestione industriale, chiede agli architetti Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Rogers del noto studio B.B.P.R. di progettare un negozio al numero 584 della Fifth Avenue di New York, nel cuore del «blocco dei miliardi», tra la 44esima e la 45esima strada, nessuno può sapere che quel negozio è destinato a diventare l’Apple Store più bello di sempre.
Steve Jobs non è ancora nato. La Apple nascerà 22 anni dopo, nel 1976. Ma quel negozio senza soluzione di continuità tra marmi, acciaio, vetrate trasparenti, opere d’arte e prodotti iconici, che il Time definisce «il più bello della Quinta Strada», mette in vetrina le visioni e le intuizioni che avrebbero scritto la storia dell’elettronica nei successivi cinquant’anni.
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Il negozio Olivetti sulla Fifth Avenue 584 di New York
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