IL CAPPIO SEMPRE PIU’ STRETTO PREPARATO DALLA MERKEL HA FINITO PER STROZZARE L’ECONOMIA GERMANICA.

>>>ANSA/RENZI A MERKEL-CAMERON,SERVE UE PIÙ VITALE,IDEE PRIMA DI NOMI

** L’ULTIMA GUERRA MONDIALE **

IL CAPPIO DELLA MERKEL IMPOSTO

ALL’ECONOMIA EUROPEA

FINISCE PER STROZZARE ANCHE LA GERMANIA.

RIUSCIRA’ MATTEO RENZI A FAR CAPIRE  ALLA ASTUTA MA MIOPE CANCELLIERA CHE QUESTA SITUAZIONE, DI CONVENIENZA SOLO TEDESCA, FINIRA’ PER STROZZARE TUTTA LA ZONA EURO COMPRESA LA GERMANIA?

OPPURE RENZI ASCOLTERA’ I CONSIGLI  DEI MAGGIORI ECONOMISTI E PREMI NOBEL CHE SUGGERISCONO ALL’ITALIA DI USCIRE SUBITO DALL’EURO?

UN ONERE NON BANALE VISTO CHE DA QUESTA AZIONE POTREBBE SCATURIRE LA PIU’ GRANDE CRISI DI TUTTI I TEMPI, O NEL CASO POSITIVO, LA RINASCITA DI UNA NAZIONE COME L’ITALIA E DELLA INTERA EUROPA. CI VUOLE CORAGGIO E AMORE PER I FIGLI E PER LA PATRIA…

“Il solo modo possibile per tener fede alla sua promessa di un Risorgimento per l’Italia, e forgiare il proprio mito, è scommettere tutto sulla Lira”. L’invito al premier italiano Matteo Renzi arriva dalle colonne del britannico Telegraph. A firmarlo l’editorialista anti-europeista Ambrose Evans-Pritchard, convinto che l’unica chance dell’Italia per uscire dalla depressione in cui versa “da quasi sei anni” (salvo qualche “falso risveglio) sia abbandonare l’Euro. Secondo Evans-Pritchard, infatti, è “un fatto incontrovertibile che i 14 anni di disastro italiano coincidano con l’adesione alla moneta unica”

E anche se “questo non prova il rapporto di causa-effetto”, “suggerisce che l’unione monetaria abbia innescato una dinamica molto distruttiva” e sia un forte indizio del fatto che ora l’unione impedisce al Paese di uscire dalla trappola”.

A sostegno della tesi di Pritchard, specializzato in economia internazionale, c’è il rapporto di Moody’s che prevede un calo del 0,1 % del Pil italiano, i dati della Banca d’Italia sulla stagnazione del mercato immobiliare e il livello del debito, salito al 135,6% del Pil. “Il rapporto – sostiene Evans-Pritchard – potrebbe spingersi verso il 140% entro la fine dell’anno, acque inesplorate per un Paese che di fatto prende a prestito in Marchi tedeschi. ‘Nessuno sa quando il mercato reagirà’, dice un banchiere”.

La conseguenza, stando all’articolo, è che “il premier Matteo Renzi dovrà fare tagli tra i 20 e i 25 miliardi di Euro per rispettare gli obiettivi europei di deficit, perpetuando il circolo vizioso”. Ma “il compito è disperato. Uno studio del think-tank Bruegel ha trovato che l’Italia dovrebbe ottenere un surplus primario di 5 punti percentuali di Pil per stabilizzare il debito se l’inflazione fosse al 2%. Con l’inflazione a zero, i punti di Pil diventano 7,8. Ogni tentativo di centrare quell’obiettivo porterebbe a una controproducente implosione dell’economia italiana”. L’articolo del Telegraph, che da tempo pronostica la prossima “fine dell’Euro”, cita poi l’economista indiano ed ex funzionario del Fondo monetario Ashoka Moody’s, che ora lavora al Bruegel, secondo il quale le autorità italiane dovrebbero iniziare a consultare “brillanti avvocati esperti in debito sovrano per assicurare una ristrutturazione ordinata del debito“.

Evans-Pritchard ricorda anche l’invito lanciato di recente da Eugenio Scalfari su Repubblica: “L’Italia si sottoponga al controllo della troika”. “Mr. Scalfari sembra pensare che la democrazia italiana debba essere sospesa per salvare l’Euro”, deduce il giornalista. “Il giovane Mr. Renzi potrebbe trarre la conclusione opposta, cioè che l’Euro deve essere scaricato per salvare l’Italia”. La quale prima dell’unione monetaria, grazie alla “Lira debole”, “aveva un surplus commerciale nei confronti della Germania, mentre ora la sua “metà arretrata, soprattutto il Mezzogiorno, compete palmo a palmo con la Cina e le economie emergenti dell’Asia in settori che dipendono dai prezzi”.

A poco vale, secondo Evans-Pritchard, invocare le “riforme“: “Pochi negano che lo Stato italiano abbia bisogno di un cambiamento radicale, ma l’Italia ha anche bisogno di un ‘New Deal’ fiscale, massicci investimenti in infrastrutture e capitale umano, approfondite analisi di mercato nei settori che ancora performano come il turismo, il made in Italy, il food and beverage, ristrutturazione e ampliamento dei musei per portarli all’eccellenza turistica, il tutto sostenuto da uno stimolo monetario per tirare il Paese fuori dalla sua soffocante tristezza. E Mr. Renzi deve ormai sapere che questo non può essere fatto nell’ambito dell’unione monetaria”. Ma, nota il giornalista, ora “si trova nello stesso orrendo imbarazzo di Francois Hollande in Francia. Da outsider se la è presa con l’austerità europea, salvo poi sottomettersi senza far rumore una volta entrato in carica, perché i suoi consiglieri gli assicuravano che la ripresa era alle porte”. L’articolo giudica però Hollande “impossibile da salvare”, mentre “Renzi non ha ancora bruciato il suo capitale politico ed è uno “scommettitore nato”.

Ora però Renzi è da solo, non avrà il seguito e l’approvazione dei poteri fantoccio italiani che hanno appoggiato la Germania, non ha neppure la possibilità che si possa associare alla Francia, almeno a quella di Holland, perché “non c’è più alcuna chance che Italia e Francia possano guidare insieme una rivolta dei Paesi latini” contro il Consiglio europeo e la Banca centrale. Il consiglio del Telegraph, dunque, è di non negoziare ma “liberarsi dalla trappola dell’unione monetaria, riprendere il controllo dei suoi strumenti di sovranità e rinominare il suo debito in Lire, introducendo il controllo sui movimenti di capitali finché la situazione non si normalizzi”. Secondo il giornale “non ci sarebbe un’immediata difficoltà a rifinanziarsi, perché il Paese ha un surplus primario” e “non soffre di un eccesso di debito in senso stretto”, poiché le famiglie sono poco indebitate. “Il problema di base è un disallineamento del tasso di cambio che crea una non necessaria crisi del debito pubblico attraverso il perverso meccanismo dell’unione monetaria”. La scelta, conclude Evans-Pritchard, dovrà essere presa a breve, quando “la traiettoria del debito italiano entrerà nella zona di pericolo. Stavolta potrebbe non essere così chiaro che il Paese voglia essere ‘salvato’ nei termini stabiliti dall’Europa”.

Alcuni dati:

“La Germania non ha il PIL a -0,2, ma a +0,5, ovvero è passata da + 0,7 a +0,5. Quindi la Germania non è in recessione, ma cresce meno. E’ il modo che hanno i nostri media per fare disinformazione, così hanno permesso a Renzi di affermare che anche la Germania va male, vero in parte perché in realtà cresce meno a differenza nostra che siamo in piena decrescitra. Sono omissioni di reale informazione che per non allarmare l’opinione pubblica, la sottraggono ad una matura conoscenza della realtà”.

E se l’italia uscisse dall’Euro quanto costerebbe ai risparmiatori?

Il pensiero del Professor Borghi:

 “L’euro è uno zaino dello stesso peso che, però, viene fatto indossare a corridori di corporatura diversa. Non è uguale per tutti. Per chi è più leggero e agile, è uno strumento che lo svantaggia incredibilmente; per chi è più grande e massiccio, è un forte vantaggio relativo”.

Qualora riuscisse il miracolo che si realizzasse un parlamento a maggioranza euroscettica, probabilmente la Germania se ne andrebbe risolvendo il problema nella maniera più semplice. Se ad un giocatore che sta vincendo al poker barando viene puntata la pistola alla tempia, può anche essere che questo pensi di andarsene pur di portare a casa quanto è riuscito a vincere. Viceversa, se nessuno obietta e tutti lasciano fare, allora quel giocatore andrà avanti a vincere barando. Cercare alleanze in Europa fa, dunque, parte di un punto cruciale della nostra strategia.

Per fare un esempio nel suo ultimo libro George Soros ha calcolato che nonostante la crisi economica la Germania sia riuscita a guadagnare oltre 100 miliardi di euro mentre altri Paesi dell’Eurozona andavano gambe all’aria. Davanti a questo furto, però, partiti come Scelta civica o Ncd rispondono che “per salvare l’Europa ci vuole più Europa”. Non è un controsenso?

Il problema e la mala informazione. Pochissimi fanno vedere cosa succede in Grecia, pochissimi fanno vedere come sta aumentando la disoccupazione in Francia. Questo perché c’è un’informazione di regime che travisa intenzionalmente qualsiasi tipo di notizia, che può così essere vista come positiva, come un trionfo dell’Europa.”Chi tira i fili in questa operazione? “In primo luogo c’è chi ha un interesse diretto. Se il nostro vicino ha qualcosa che ci piace, di sicuro non gli auguriamo il successo ma speriamo in un rovescio economico per potergliela comprare per un tozzo di pane. I Paesi europei più ricchi hanno industrie interessate alle ricchezze italiane. E, guarda caso, sono gli stessi che pagano l’informazione. In secondo luogo ci sono quelli che inizialmente in buona fede hanno spinto per entrare in Europa e che ora, davanti allo sfacelo, sono prigionieri dei propri errori. Non ammetteranno mai di aver sbagliato. E tantomeno chiederanno mai scusa.”

 

Il pensiero di Thomas Fazi.

Tra i tanti motivi per cui l’Europa – e in particolare zona periferica – fatica a uscire dalla crisi, ce n’è uno che forse spicca su tutti: ossia, il fatto che a molti (inclusi, viene il sospetto, i nostri governanti) non è ancora chiaro come ci siamo entrati. Ci si rende conto di ciò ogniqualvolta si cerchi di ragionare sulle responsabilità della Germania nel perpetuarsi e aggravarsi della crisi, cosa che su questo blog facciamo con una certa solerzia, e non certo per pregiudizio anti-tedesco. In questi casi, a prescindere dalla validità delle proprie argomentazioni, è comune sentirsi rispondere: “Sì, avete ragione, la Germania potrebbe fare di più, ma bisogna pur capirli i tedeschi: hanno già sborsato tanti soldi per salvare le scalcagnate economie della periferia ed è normale che non se la sentano di sborsarne altri”. È infatti piuttosto diffusa l’idea secondo cui la Germania sarebbe giustificata a chiedere garanzie e sacrifici ai paesi periferici – e a essere riluttante a fare ulteriori concessioni – in quanto avrebbe già contribuito massicciamente ai “salvataggi” – o bail-out – di Grecia, Irlanda, Spagna, ecc. Insomma, anche la Germania, a suo modo, avrebbe pagato un conto piuttosto salato a causa della crisi. Secondo questa lettura, la Germania potrebbe essere paragonata a una sorella maggiore severa, forse un po’ ottusa, ma comunque disposta ad aiutare i propri fratelli nel momento del bisogno. Ma è veramente così?

È noto come in seguito all’introduzione dell’Euro la Germania abbia accumulato degli enormi avanzi (o surplus) commerciali, a scapito dei paesi della periferia, che invece hanno accumulato dei disavanzi (o deficit) senza precedenti. Non ci interessa qui entrare nel merito di come e perché questo sia accaduto (ne abbiamo già parlato altrove). Ai fini del nostro ragionamento, ci basti sapere che all’interno di un’area monetaria, il surplus di certi paesi corrisponde necessariamente al deficit di altri (se io ho un surplus nei tuoi confronti, tu non puoi averlo nei miei). I paesi che registrano un deficit della bilancia commerciale – ovvero che importano più di quanto esportano, il che vuol dire che spendono all’estero più di quanto incassino – ricorrono spesso a capitali esteri per finanziare i propri deficit. E infatti, tra il 2000 e il 2007, le banche della periferia hanno accumulato un’esposizione enorme nei confronti delle banche dei paesi leader – e in particolare della Germania. Come spiega l’economista e banchiere Antonio Foglia sul Corriere della Sera di qualche giorno fa:

“Dai primi anni 2000, la Germania accumula avanzi commerciali persistenti verso alcuni partner europei. Nell’ambito di un’unione monetaria, un paese esportatore netto, che consuma e investe meno di quanto produce, non può che accumulare passività finanziarie dei paesi importatori netti come pagamento ed essere quindi esportatore netto di capitali verso i paesi importatori di merci. Gli americani chiamano questa dinamica vendor-financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto”.

In sostanza la Germania, attraverso il suo settore finanziario, ha esportato enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentando boom immobiliari in molti di essi (in particolare in Spagna e Irlanda) e, soprattutto, permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. Per molti versi, “i tedeschi si sono autofinanziati il loro cosiddetto miracolo economico”, scrive l’economista americano Dan Alpert [1]. Una strategia non dissimile da quella adottata dalla Cina nei confronti degli Stati Uniti. Questo è un punto importante, perché evidenza un concetto di cui spesso ci si dimentica: ossia che per ogni paese (o banca o individuo) che si indebita troppo, ce n’è sempre un altro che presta troppo – creditori e debitori, insomma, condividono le stesse responsabilità. Nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, il sistema bancario tedesco, a furia di erogare credito che andava anche ad “autofinanziare” le esportazioni tedesche, si ritrovò esposto per più di 900 miliardi di Euro verso i paesi della periferia. Una cifra pari a oltre due volte e mezzo il capitale totale delle banche tedesche. Questo rappresentava per esse un rischio enorme. Com’è noto, infatti, in seguito al crash d’oltreoceano, molte banche europee – e in particolare della periferia – si ritrovarono sull’orlo del fallimento. Se queste fossero crollate, avrebbero trascinato giù con sé anche molte delle banche tedesche verso le quali si erano indebitate. Sappiamo che non è andata così: tra il 2008 e il 2009, infatti, i governi europei hanno stanziato più di 3,000 miliardi (o tre trilioni) di Euro per salvare le proprie banche – e ovviamente, con esse, le banche creditrici (molte delle quali tedesche) [2]. Sappiamo anche che in almeno uno di questi casi – quello dell’Irlanda – questo è avvenuto su diretta pressione della BCE (che infatti nel giro di pochi mesi avrebbe consigliato lo stesso approccio a tutti gli altri governi dell’eurozona, come attestato da questo paper). Come scrive Foglia, “la BCE fece imporre a Paesi come l’Irlanda, che avevano finanze pubbliche perfettamente sane, di rovinarle per salvare anche delle banche estere creditrici [tra cui alcune delle principali istituzioni finanziarie internazionali quali Allianz, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSB e Société Générale], che poterono rientrare dai crediti facili erogati”. Il risultato fu che nel giro di un paio d’anni il rapporto debito-PIL dell’Irlanda passò dal 25 per cento – uno dei più bassi dell’eurozona – al 100 per cento. Ma non è stata solo l’Irlanda a rovinarsi per salvare le proprie banche (e con esse i creditori): lo stesso vale anche per la Spagna, e in misura minore per il Portogallo. Com’è noto, l’effetto dei salvataggi bancari – e più in generale della crisi economica (ovviamente anch’essa causata dalle banche) – sulle finanze pubbliche di questi paesi è stato così devastante che di lì a poco, dopo la Grecia, tutti e tre – Irlanda, Portogallo e Spagna, in quest’ordine – sono stati costretti a chiedere aiuto alla troika UE-BCE-FMI. Anche in questo caso, però, dobbiamo chiederci: chi è che è stato veramente salvato dai bail-out della troika? I paesi debitori o quelli creditori?

Prendiamo l’Irlanda, il primo paese a uscire da un programma di “salvataggio” della troika, e per questo presentato come un “esempio di successo” della politica post-crisi della UE. Come apprendiamo da uno studio pubblicato di recente da Attac Austria e Attac Irlanda, mentre l’Irlanda riceveva 67,5 miliardi di Euro di prestiti dalla troika a partire da fine 2010, il paese ha trasferito una somma totale di 89,5 miliardi di Euro al suo settore finanziario nello stesso periodo. 55,8 di questi miliardi sono finiti nelle tasche delle banche creditrici, tutte straniere (tra cui varie banche tedesche e francesi). Non sorprende che a ottobre 2013 il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, abbia commentato così la situazione irlandese: “L’Irlanda ha fatto quello che doveva fare […]. Ora va tutto bene”. “Nel corso del suo cosiddetto ‘salvataggio’, l’Irlanda ha dato al suo sistema finanziario più soldi di quanti ne abbia ricevuti per il suo salvataggio”, sostiene Dominique Plihon di Attac Francia. “La popolazione irlandese si è pesantemente indebitata per salvare il sistema bancario europeo”. In particolare, lo studio punta il dito contro la decisione della troika – e in particolare della BCE – di costringere l’Irlanda a garantire il rimborso di tutti i creditori, anche quelli non coperti dalle garanzie dello stato. Un’indagine condotta dal Parlamento europeo, infatti, mostra che la BCE ha obbligato il governo irlandese a prendere questa misura minacciando di sospendere il finanziamento d’urgenza delle banche irlandesi. E questo sebbene il rimborso delle obbligazioni non faccia parte del memorandum di salvataggio e malgrado la richiesta dell’FMI che i creditori subissero delle perdite (per mezzo di quello che si chiama “haircut”). Così facendo, la BCE ha garantito la protezione anche degli investitori più speculativi, come gli hedge fund. Questi ultimi avevano prestato soldi alle banche irlandesi a un tasso elevato quando era già chiaro che queste erano sul punto di crollare o di essere soccorse dallo stato. Il rapporto conclude che la BCE ha senza dubbio oltrepassato il suo mandato e raccomanda di non includerla in future troike. “Con ricatto e coercizione la BCE si è assicurata che in capo a cinque anni di salvataggio delle banche, gli speculatori avranno di fatto raccolto 6 miliardi di euro di fondi pubblici”, dice Plihon.

E per quanto riguarda la Spagna? A metà del 2012, anno in cui il paese ha richiesto alla troika un bail-out di 100 miliardi di euro per salvare il proprio sistema finanziario, le banche spagnole erano esposte nei confronti delle loro controparti tedesche per circa 40 miliardi di euro. Includendo l’esposizione delle aziende e del settore pubblico spagnoli, il debito totale del paese nei confronti delle banche tedesche ammontava a più di 100 miliardi di euro [3]. In questo senso, il salvataggio delle banche spagnole, prima con i soldi dei contribuenti spagnoli, e poi con quelli dei contribuenti di tutta la UE, per mezzo del MES (Meccanismo europeo di stabilità) , va visto prima di tutto come un “salvataggio nascosto delle banche tedesche”, scrive l’autorevole rivista International Financing Review [4]. Gli fa eco Jens Sondergaard della banca d’investimento giapponese Nomura: “Il bail-out delle banche spagnole è in realtà un bail-out delle banche tedesche […]. Se le prime fossero fallite, le conseguenze per il sistema bancario tedesco sarebbero state devastanti” [5].

Fin qui abbiamo parlato soprattutto di debiti privati, ossia tra banche. Ed è normale, visto che il grosso dei debiti accumulati dai paesi della periferia nella anni precedenti alla crisi erano debiti privati, non pubblici (a dispetto di quello che siamo abituati a sentire sulle origini della crisi). L’unica vera eccezione a questa regola è la Grecia (e in misura minore l’Italia), dove il grosso del debito era effettivamente pubblico. I creditori, però, erano sempre gli stessi: per lo più banche tedesche e francesi. E anche in questo caso non possiamo esimerci dal chiederci: a chi è andato veramente l’ormai celebre “salvataggio” della Grecia? Sempre Attac, in un altro studio, ha rivelato che il grosso dei 207 miliardi sbloccati dall’Unione europea e dall’FMI dal 2010 nel quadro del “piano di salvataggio” della Grecia sono andati alle banche (58 miliardi di euro) e ai creditori dello stato greco (101 miliardi), principalmente banche e fondi d’investimento. Ameno il 77 per cento dell’aiuto europeo, dunque, è andato a beneficio diretto o indiretto del settore finanziario. Solo 46 miliardi sono serviti a dare sollievo ai conti pubblici greci. Nello stesso periodo, lo stato greco ha pagato 34 miliardi di euro di soli interessi sul debito. Il governo tedesco ha rifiutato le conclusioni dello studio di Attac, affermando che tutti i greci hanno beneficiato del fatto che i creditori non siano falliti (sic). “L’obiettivo delle élite europee non è il salvataggio della popolazione greca ma del settore finanziario”, conclude Lisa Mittendrein di Attac Austria. “Hanno usato centinaia di miliardi di euro di soldi pubblici per salvare le banche dalla crisi che esse stesse hanno causato […]. Il cosiddetto ‘salvataggio greco’, in poche parole, non è altro che l’ennesimo salvataggio a beneficio delle banche”. Molte delle quali tedesche. È la stessa conclusione raggiunta anche da nientedimeno che Peter Böfinger, consigliere economico del governo tedesco, che ha dichiarato che il bail-out della Grecia “non riguarda tanto i problemi della Grecia quanto quelli delle nostre banche, che possiedono molti crediti nei confronti del paese” [6]. Incredibilmente, il dubbio che il bail-out così come concepito dalla Commissione europea e dalla BCE avesse lo scopo di salvare le banche e non la Grecia fu sollevato a suo tempo persino dal terzo membro della troika, il Fondo Monetario Internazionale. È riportato nero su bianco nei verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui l’FMI ha dato il via libera al primo piano di aiuti per il paese, pubblicati dal Wall Street Journal. I documenti, classificati come riservatissimi e segreti, parlano chiaro: più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40 per cento del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici FMI. Il motivo? Era “ad altissimo rischio”, come ha messo a verbale il rappresentante brasiliano, perché “concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia” [7]. L’articolo spiega che l’FMI era propenso a imporre subito un taglio al debito greco, per mezzo di un “haircut” (come poi è stato fatto nel 2012), ma la Commissione europea e la BCE erano fermamente opposte a imporre qualunque perdita ai creditori. Con i risultati che abbiamo visto.

Ma la Germania ha beneficiato anche di un altro “salvataggio nascosto”. Come spiega Foglia:

“Al persistere della crisi, alla fine del 2011, la BCE decise di erogare credito generoso a buon mercato (LTRO) per evitare l’avvitamento dell’aumento dei tassi sul debito sovrano e bancario […]”. Con i soldi ricevuti, le banche dei paesi periferici in crisi, in parte proseguirono il rimborso dei crediti interbancari ricevuti soprattutto dalla Germania ed in parte ricomprarono dall’estero il debito sovrano nazionale. Ma quando una banca tedesca chiede a una banca italiana di rimborsare un credito interbancario, o di pagarle un Btp che le ha venduto, la banca tedesca vuole essere accreditata presso la Bundesbank. La banca italiana quindi chiede alla Banca d’Italia di addebitarla in conto e accreditare la Bundesbank. Il rapporto tra le due banche private si estingue ma la Bundesbank resta creditrice, e la Banca d’Italia debitrice, sul sistema di pagamento della BCE noto come Target 2. Ed infatti, mentre l’esposizione verso la periferia dell’eurozona del sistema bancario tedesco scese da oltre 900 miliardi di euro del 2008 ai 380 circa di oggi, il saldo creditore della Bundesbank su Target 2 esplose e si colloca oggi a oltre 520 miliardi. In questo processo, il settore privato tedesco si è disfatto di molti crediti dubbi […]. Ma la maggior parte del credito concesso dalle banche tedesche alla periferia dell’eurozona è stato in pratica semplicemente passato alla Bundesbank come saldo di Target 2. E dei saldi di Target 2 rispondono in solido gli azionisti della Bce, e quindi anche la Germania, ma solo per il 27%. Ecco quindi come il sistema bancario tedesco è stato di fatto salvato mutualizzando i suoi crediti dubbi verso la periferia a spese di tutti i paesi dell’eurozona.

Conclude Foglia:

“È ora di prendere atto che uno dei maggiori effetti imprevisti dell’attuale architettura incompleta dell’eurozona è che tutte le nazioni europee hanno in pratica salvato il sistema bancario tedesco dai rischi dei crediti dubbi accumulati come contropartita dei surplus commerciali persistenti della Germania. A tutti gli effetti, un bail-out di oltre 500 miliardi di Euro del sistema bancario tedesco da parte dei partner europei di cui pochi si sono ancora accorti”.

Infine, potremmo aggiungere che la Germania ha ottenuto un ulteriore beneficio dalla crisi sotto forma di tassi d’interesse ridotti sul debito pubblico a causa dell’aumento dello spread nei confronti dei paesi della periferia, che secondo alcuni studi avrebbe fruttato al governo tedesco tra i 9 e i 60 miliardi di euro [7]. A questo proposito, sarebbe utile ricordare che la Germania, nonostante possieda il debito pubblico più alto di tutta l’eurozona in termini assoluti – equivalente a 2,160 miliardi di euro, secondo gli ultimi dati Eurostat – paga un interesse sul debito del 2.5 per cento del PIL, rispetto al 5.5 per cento dell’Italia. Giusto per farsi un’idea della differenza che possono fare tre punti percentuale, se anche noi pagassimo un interesse equivalente a quello della Germania risparmieremmo all’incirca 40 miliardi l’anno sul servizio del debito.

Che conclusioni possiamo trarre da questi dati? Prima di tutto che sarebbe il caso di smetterla di dire che la Germania ha “sborsato molti soldi” per salvare le povere economie della periferia, quando in realtà è accaduto esattamente l’inverso. Ma soprattutto che la vera tragedia dei paesi della periferia – Italia in primis – risulta essere non tanto la politica della “cattiva Germania”, che in fondo si limita a portare avanti una strategia eticamente discutibile ma politicamente legittima di difesa dei propri interessi nazionali, quanto l’assoluta mancanza di leader dei suddetti paesi che abbiamo l’autorevolezza e il coraggio di inchiodare la Germania alle proprie responsabilità – o perlomeno di farle presente i numerosi benefici ottenuti più o meno deliberatamente nel corso della crisi – e di portare avanti una loro altrettanto legittima politica di interesse nazionale all’interno della dialettica europea. Come nota anche Foglia, l’Italia, in virtù del fatto che ha le finanze pubbliche più virtuose di tutta l’eurozona (a tal riguardo, vedi questo post) – oltre a essere il paese più colpito dalla crisi, dopo la Grecia, nonché una delle principali economie del continente –, sarebbe il paese più indicato per avviare un serio confronto con la Germania, se solo ci fosse qualcuno in grado di farsene carico. Come conclude Foglia, l’Italia “avrebbe buon titolo, se appena riuscisse a fare qualche vero progresso in campo domestico, per chiedere alla Germania quella solidarietà che ora nega dopo averne, inconsciamente, approfittato. E rilanciare così, al suo turno di presidenza, il progetto europeo”. In effetti, è un’occasione storica. Saremo all’altezza?

E’ un fatto incontrovertibile che il disastro che dura da 14 anni in Italia coincide con l’adesione all’Unione economica e monetaria dell’UE UEM. L’Italia è in depressione da quasi sei anni. Il crollo è stato costellato da false riprese, sopraffatte ogni volta dai dilettanti monetari responsabili della politica UEM. L’ultima ripresa è svanita dopo un solo trimestre. L’economia è di nuovo in recessione tecnica. La produzione è crollata del 9.1%, tornando indietro a livelli di 14 anni fa. La produzione industriale è scesa a livelli del 1980. Ci vogliono errori di politica economica madornali per realizzare un tale risultato in un’economia moderna. L’Italia non ha subito niente di simile durante la Grande Depressione, facendo segnare una crescita del 16% tra il 1929 e il 1939. Nemmeno Mussolini era così maniacale da perseguire i suoi deliri sul Gold Standard fino all’amaro finale. Le autorità italiane intravedono segnali di ripresa, come le guardie della fortezza nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, ingannati dalle illusioni ottiche dell’orizzonte senza vita. I prestiti bancari alle imprese sono ancora in calo a un tasso del 4.5%. Moody’s dice che quest’anno l’economia si contrarrà dello 0.1%. Société Génerale prevede -0.2%.

Il prezzo e le vendite delle case in Italia

Il crollo della proprietà immobiliare non ha ancora toccato il fondo. La Banca d’Italia ha detto che il numero dei mesi necessari per vendere una casa è salito a 9,4, da 8,8 della fine dell’anno scorso. L’indice del peggioramento delle condizioni di mercato è passato da 19.6% a 34.7% in tre mesi. “Non possiamo andare avanti più a lungo”, hanno dichiarato alla filiale di Taranto dell’associazione degli industriali italiana, Confindustria, in una lettera aperta al Presidente della Repubblica. La regione sta diventando un “deserto industriale”, hanno avvertito, con le piccole imprese sull’orlo della chiusura e dei licenziamenti di massa. Il mix letale di contrazione economica e inflazione zero sta portando la traiettoria del debito in Italia a crescere in maniera esponenziale, nonostante l’austerità e un avanzo primario del 2% del PIL. Nel primo trimestre il debito pubblico è salito al 135.6%, dal 130.2% dell’anno prima. Questo è un effetto meccanico, il risultato dell’onere dell’interesse composto su una base nominale statica. I tassi di interesse reali sullo stock del debito italiano di € 2.100 miliardi – con una scadenza media di 6,3 anni – sono in realtà in aumento a causa dell’arrivo della deflazione. Il rapporto del debito può arrivare al 140% entro la fine dell’anno, in acque inesplorate per un paese che in realtà si indebita in D-Marks. La recessione sta erodendo le entrate fiscali così gravemente che il premier Matteo Renzi dovrà venirsene fuori con nuovi tagli, dai 20 ai 25 miliardi di €, per soddisfare gli obiettivi di disavanzo dell’UE, perpetuando il circolo vizioso. Il compito è senza speranza. Uno studio del think-tank Bruegel ha rilevato che l’Italia deve realizzare un avanzo primario del 5% del PIL per stabilizzare il debito con un’inflazione al 2%. L’avanzo sale al 7.8% a inflazione zero. Qualsiasi tentativo di raggiungere questo obiettivo porterebbe ad una implosione autodistruttiva dell’economia italiana.

I livelli del PIL italiano nel corso degli anni

Ashoka Mody, fino a poco tempo fa alto funzionario del piano di salvataggio del FMI in Europa, ha detto che gli studi interni del Fondo hanno ritenuto impossibile realizzare avanzi primari nella scala necessaria. Piuttosto provvedere urgentemente alla ristrutturazione del proprio debito.

“Non deve essere un cataclisma. Ci sono modi di dilazionare gli obblighi di pagamento nel corso del tempo. Ma non c’è nessuna ragione di attendere fino a che il rapporto giunga al 150%. Dovrebbero andare avanti in questo senso da subito” ha detto Eugenio Scalfari, il decano de La Repubblica e leader dell’establishment UEM in Italia, sostiene che la ricaduta degli ultimi mesi ha ucciso tutte le illusioni. Ha raccomandato a Renzi di prepararsi a un salvataggio. “Devo esprimere una amara verità, perché tutti noi possiamo vedere la realtà davanti i nostri occhi. Forse l’Italia dovrebbe mettersi sotto il controllo della Troika di Commissione, BCE e FMI” ha detto. Scalfari sembra pensare che la democrazia in Italia dovrebbe essere sospesa per salvare l’euro, che il paese dovrebbe raddoppiare le politiche di terra bruciata, imbarcandosi in uno sforzo ancora più draconiano per recuperare competitività attraverso un svalutazione interna. Il giovane Renzi – appena 17enne quando fu firmato il Trattato di Maastricht, e quindi libero dal peccato originale – potrebbe equamente concludere il contrario, che l’Euro dovrebbe essere abbandonato per salvare l’Italia. E’ un fatto incontrovertibile che il disastro italiano che dura da 14 anni coincide con l’adesione all’UEM. Questo non prova che ci sia causalità. Ma suggerisce che l’UEM ha messo in moto una dinamica molto distruttiva per le particolari condizioni dell’Italia, ed è molto chiaro che l’UEM ora impedisce al paese di uscire dalla trappola. Ci dimentichiamo che l’Italia registrava abitualmente un surplus commerciale nei confronti della Germania nel periodo pre-UEM. Le industrie italiane del nord erano viste come concorrenti formidabili, quando la lira era debole. Antonio Guglielmi, di Mediobanca, dice che l’Italia teneva, prima di agganciare la Lira al Marco nel 1996. Solo allora è entrata in una “spirale negativa della produttività”. In un rapporto che è una condanna, egli ha mostrato come negli ultimi 40 anni la crescita della produttività e della competitività in Italia abbia vacillato ogni volta che la valuta nazionale è stata agganciata a quella tedesca. E si è ripresa dopo ogni svalutazione. Una ragione è che l’economia Italiana ha un “gearing” del 67% sul tasso di cambio a causa dei tipi di prodotti che fabbrica, rispetto al 40% della Germania. Il tallone d’Achille è la metà arretrata dell’economia Italiana, soprattutto il Mezzogiorno. Non vorrei tornare sul dibattito stantio sul perché l’Italia ha continuato a perdere competitività del lavoro nei confronti della Germania per un decennio e mezzo, se non per dire che questo dimostra solo quanto sia difficile piegare le culture profondamente radicate dei paesi europei alle esigenze di un esperimento monetario. Gli economisti avevano detto che le nazioni UEM avrebbero dovuto convergere. Gli antropologi e gli storici hanno sostenuto che una cosa simile non sarebbe accaduta. E ora siamo arrivati qui, la situazione è ormai insostenibile. L’Italia è sopravvalutata del 30% rispetto alla Germania. Non può recuperare attraverso la deflazione, in quanto la stessa Germania è vicina alla deflazione. Le élite della UEM esortano l’Italia a fare le “riforme”, un termine che viene buttato là liberamente. “E’ tutto un pio desiderio. Le metriche del mercato del lavoro per la Germania e l’Italia non sembrano così diverse. Non è più facile assumere e licenziare in Germania”, ha detto Modi, che era il direttore del FMI in Germania. Il professor Giuseppe Ragusa, della Luiss Guido Carli di Roma, ha detto che il principale fallimento in Italia è la mancanza di investimenti in capitale umano. “Ciò che veramente colpisce è quanto siamo indietro nell’istruzione”, ha detto. I dati dell’OCSE mostrano che l’Italia spende solo il 4.7% del PIL per l’istruzione, rispetto al 6.3% di tutta l’OCSE. La quota di giovani di età compresa tra 25-34 anni che hanno completato gli studi superiori è del 21%, rispetto ad una media del 39%. Gli insegnanti sono pagati una miseria. Questo è davvero un grosso problema strutturale, ma non può essere risolto dalle “riforme”, figuriamoci dall’austerità. Pochi contestano che lo Stato italiano abbia bisogno di una revisione radicale. Ma ciò di cui l’Italia ha bisogno è anche un “New Deal”, un massiccio investimento in infrastrutture e competenze, sostenuto da uno consistente stimolo monetaro. Renzi deve ormai aver capito che questo non può essere fatto sotto l’attuale regime dell’UEM. Improvvisamente si ritrova nella stessa situazione terribile di Francois Hollande. Entrambi si ritrovano con il cappio al collo. La differenza è che Hollande è oltre ogni possibilità di salvarsi. Il regime depressivo dell’UEM ha distrutto la sua presidenza. Le Figaro sta pubblicando una fiction estiva in cui si esplora la possibilità di dimissioni anticipate. Il signor Renzi non ha ancora bruciato il suo capitale politico, ed è un giocatore d’azzardo per natura. Non c’è più alcuna possibilità che Italia e Francia conducano una rivolta dei paesi latini, mettendo insieme una maggioranza in seno al Consiglio europeo e alla Banca centrale per imporre una strategia di rilancio a livello dell’UEM che cambi completamente il panorama economico. Con l’adesione alla Germania a tutti i costi, la forza politica di Hollande è bruciata. Gli Spagnoli pensano – sbagliando – di essere fuori dal guado, e di non averne bisogno. Renzi è solo. Egli si trova davanti una BCE che ha sostanzialmente violato il suo contratto con l’Italia, lasciando cadere l’inflazione a 0.4% sapendo che questo avrebbe fatto andare in metastasi la crisi italiana. Egli si trova davanti una Commissione subentrante che promette di attuare le stesse disastrose politiche economiche che si sono già dimostrate rovinose. Non vi è alcuno spazio di negoziazione. Queste istituzioni non sono riuscite a garantire un aggiustamento simmetrico che costringa sia il Nord che il Sud ad adottare delle misure per chiudere il divario intra-UEM da entrambe le estremità, assumendosi pari responsabilità per la cattiva gestione della joint venture UEM nei suoi primi anni. Sostenendo solo la volontà dei creditori, hanno messo a terra l’unione monetaria. Non hanno più alcuna legittimità. L’Italia deve badare a sé stessa. Si può riprendere solo se si libera dalla trappola UEM, riprende il controllo dei suoi strumenti di politica economica e ristruttura i suoi debiti in Lire, con controlli dei capitali fino a quando le acque si calmino. L’Italia non si troverebbe ad affrontare una crisi immediata di finanziamento, dal momento che ha un avanzo primario di bilancio. La sua posizione patrimoniale netta sull’estero è al -32% del PIL, a fronte di un -92% della Spagna e -100% del Portogallo. Il paese non soffre di eccesso di debito da un punto di vista fondamentale. Il debito ipotecario è molto basso. Il debito aggregato è circa il 270% del PIL, molto inferiore a quello di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Stati Uniti, Svezia e Paesi Bassi. Il problema principale è un disallineamento del tasso di cambio che crea una crisi del debito pubblico non necessaria, attraverso i meccanismi perversi della UEM. Non vi è un modo facile di uscire dall’Euro. Le strutture ad incastro dell’unione monetaria sono andate ben oltre ad un aggancio di cambio fisso. Gli interessi costituiti sono potenti e spietati. Eppure non è impossibile. La faccenda sicuramente precipiterà quando la traiettoria del debito italiano entrerà nella zona di pericolo.

Renzi può giustamente concludere che l’unico modo possibile per adempiere al suo compito di un Risorgimento per l’Italia, e costruirsi il proprio mito, è quello di scommettere tutto sulla Lira.” Ha detto Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph. Siamo tornati all’inizio del discorso ma vogliamo aggiungere che se una tale decisione dovesse essere presa, andrà presa non solo guardando gli interessi del settore finanziario, ma anche quelli di tutti i cittadini, dei loro capitali e potere di acquisto, possibilmente mettendo mano ad una risoluzione dei debiti contratti ed uscendo dall’Euro a valore reale.

Che non è quello che vuole il sistema bancario italiano. Doppia sfida per Matteo Renzi.

sure-com Press Agency